Da vino d’Arabia a bevanda del diavolo, da eccitante del rivoluzionario fino alla cuccuma e alla moka: ecco tra storia e leggenda, fatti e malefatte l’incredibile e lunga vita del caffè.
L’AFRICANO. Che la bevanda fosse stimolante lo confermava già il suo nome arabo, qahwa, che appunto significa eccitante. Secondo alcuni, però, la parola deriverebbe dalla zona d’origine della pianta (e della bevanda): un’origine attorno alla quale sono fiorite nel tempo molte leggende.
«La provenienza dell’arbusto Coffea arabica, da cui si raccolgono i chicchi di caffè, è ancora dibattuta», spiega Giovanni Spadola, presidente e fondatore della storica azienda di torrefazione Caffè Moak (Modica, Ragusa). «Pare che le prime piante siano state trovate a Caffa – da cui il nome – in Etiopia. Da quelle terre, tra il XIII e il XIV secolo, gli etiopi portarono il caffè nello Yemen durante le loro campagne militari. Qui le piantine trovarono terreno fertile e prosperarono nei giardini e nelle terrazze, per proseguire il loro cammino verso nord lungo la costa orientale del Mar Rosso, fino alla Mecca e a Medina (Arabia), dove già alla fine del XV secolo sorsero luoghi di degustazione in cui ci si riuniva appositamente per berlo.»
Uno dei principali centri di smistamento e diffusione del caffè, fin dal XVI secolo, divenne Il Cairo, in Egitto, da dove mercanti e pellegrini lo esportarono in ogni direzione. «La diffusione fu favorita soprattutto dalla propagazione della religione islamica, che proibiva di bere vino, sostituito dal caffè. Ma un grande contributo lo diede anche l’espansione dell’Impero Ottomano, che forniva caffè in grandi quantità fino alle porte di Vienna, eludendo ogni disposizione doganale.»
Nel XVII secolo “il vino d’Arabia” giunse infine in Europa, anche se già un secolo prima a Venezia era possibile trovare i semi della Coffea arabica, venduti dagli speziali a prezzo altissimo, come medicamento.
In breve tempo il caffè divenne però un bene di consumo facilmente reperibile, amato prima da nobili e intellettuali, poi anche dalla gente comune. A Istanbul, intorno al 1554, sorsero le prime caffetterie, che si moltiplicarono velocemente in tutta la città con il nome di qahveh (o khaveh). «Nel XVII secolo anche in Europa si ebbe il boom delle botteghe del caffè: già verso la fine del ‘600 nel Regno Unito se ne potevano contare oltre tremila, Parigi e Londra all’inizio del ‘700 ne vantavano almeno 300, mentre Vienna soltanto 10», continua Spadola. Fu invece un veneziano, Pietro Della Valle, il primo ad annunciare l’apertura di uno spaccio di caffè in Italia: era il 1615. Un secolo dopo, nel 1720, in piazza San Marco apriva i battenti il celebre caffè Florian, che ancora oggi vanta quell’ascendenza e il titolo di “caffé più antico del mondo”.
LA BEVANDA DEL DIAVOLO. L’irresistibile ascesa della nuova bevanda contribuì, nel Settecento, a far superare definitivamente i pregiudizi che avevano circondato per secoli il caffè – che inizialmente la Chiesa aveva appunto tentato di confinare ai margini della vita sociale.
L’accusa era che fosse un diabolico raddoppiatore dell’io, capace di rendere vigili, troppo loquaci e disinibiti persino i caratteri più morigerati. Una leggendaria conferma arrivava dai racconti del frate maronita Antonio Fausto Nairone, teologo alla Sorbona (Parigi) fra il Sei e il Settecento. Secondo una tradizione tramandata da questo religioso della Chiesa siriana, l’arcangelo Gabriele aveva offerto il caffè al profeta Maometto, il quale dopo averlo bevuto “disarcionò in battaglia ben quaranta cavalieri e rese felici sul talamo addirittura 40 donne“.
Turbata dalle voci sul potenziale afrodisiaco della bevanda, la Chiesa aveva dunque condannato subito quello che ormai era chiamato vino d’Arabia etichettandolo come bevanda del diavolo – che tuttavia (narra la leggenda) pare fosse apprezzata da papa Clemente VIII, il quale all’inizio del ‘600 si rifiutò di mantenere la proibizione, come chiedevano i suoi consiglieri.
Più duro a morire fu il pregiudizio che associava i consumatori di caffeina a una vita notturna viziosa e licenziosa. Non a caso ancora nel 1732 il compositore tedesco Johann Sebastian Bach scrisse una cantata il cui testo descriveva l’angoscia di un padre desideroso di guarire la figlia dalla passione del caffè, condivisa peraltro dalla maggior parte delle fanciulle di Lipsia, passione che si coltivava nelle botteghe del caffè.
DALLA TAVERNA ALLA BOTTEGA. Nati come taverne (così li definì il filosofo inglese Francis Bacon nel suo trattato di storia naturale Sylva sylvarum), i caffè mantennero sempre una doppia anima. «Da un lato erano luoghi di aggregazione e convivialità disimpegnata, dall’altro divennero spesso sedi di dibattito», spiega Giovanni Spadola. «Chiamati anche “scuole di saggezza”, questi locali erano per lo più frequentati da uomini colti e da letterati, che si davano appuntamento per conversare e bere caffè fino a tarda notte, tenuti svegli dalle proprietà eccitanti della caffeina. Col tempo, i caffè divennero anche luoghi dove si alimentava la contestazione politica, tanto che nel 1676 il procuratore generale di Londra, temendo che si trasformassero in covi di potenziali insurrezionalisti, decise di far chiudere tutte le coffee house.»
Il provvedimento ebbe però vita breve, e sempre più spesso chi voleva contestare i valori e le politiche dei governi si dava appuntamento proprio ai caffè. In Francia, il modello di riferimento divenne un locale aperto nel 1686 da un siciliano, Francesco Procopio, proprio di fronte al teatro della Comédie Française e che prese il nome dal suo fondatore. Il Café Le Procope, meta di filosofi, artisti, uomini politici e scrittori, divenne così famoso in Europa da diventare sinonimo di circolo letterario. Un secolo dopo i caffè letterari furono omaggiati da un gruppo di pensatori liberali italiani (e frequentatori di caffè) capeggiati dal filosofo Pietro Verri, che chiamò Il Caffè la rivista da lui fondata, che diede un contributo fondamentale alla diffusione dell’Illuminismo in Italia.
IL FURTO, L’ERRORE, LE AMERICHE. Nel frattempo, gli interessi legati al commercio del caffè crescevano a dismisura, e con essi cresceva la determinazione a togliere agli arabi il monopolio sulla bevanda. Ad avere successo fu l’Olanda, che nel 1690 riuscì a trafugare, nonostante la rigida vigilanza, alcune piantine di caffè, trasferendole nelle terre tropicali di Ceylon (oggi Sri Lanka) e Giava (in Indonesia) e a imporsi tramite la Compagnia delle Indie Orientali come punto di riferimento del mercato europeo del caffè.
Per il mezzo secolo successivo gli olandesi (e la Compagnia delle Indie) rimasero i padroni dei commerci europei, fino al clamoroso passo falso. Nel 1714 il borgomastro di Amsterdam offrì al re di Francia, Luigi XIV, come “speciale curiosità” due piante di caffè in fiore, collocate nelle serre reali di Versailles. L’ingenuità (se ingenuità era) fu pagata a caro prezzo: un ex ufficiale di marina, Gabriel Mathieu de Clieu, rubò infatti un arbusto e lo trasportò oltre l’Atlantico, dando inizio alla coltivazione di caffè nella Martinica francese, un’isola delle Antille.
IL LADRO DI CAFFÈ. L’avventura fu degna di Indiana Jones: de Clieu mise la sua preziosa pianta in un contenitore in vetro, creando una piccola serra portatile per garantire luce e calore alla piantina in vista del lungo viaggio. Poi, nel maggio del 1723, salpò dalla Francia. Dopo essere scampato al tentativo di un passeggero di rubargli il prezioso vegetale, a un assalto di pirati tunisini, a una violenta tempesta e a un’interminabile bonaccia nella zona delle calme equatoriali, l’ex ufficiale arrivò a destinazione.
La piantina era sopravvissuta miracolosamente. «La mancanza d’acqua era così grave», scrisse in seguito de Clieu, «che per più di un mese fui costretto a dividere la mia misera razione d’acqua con la pianta, poiché su di essa avevo riposto tutte le mie speranze più rosee e da essa traevo la mia gioia.»
Nel 1726 il ladro di caffè fece il suo primo raccolto. Nei cinquant’anni successivi le piante della Martinica raggiunsero il numero di venti milioni, riuscendo a soddisfare quasi per intero la domanda europea; ben presto le piantagioni si estesero a tutta l’area caraibica, da Haiti alla Giamaica, fino a Cuba e Portorico.
Oggi in testa alla classifica del consumo complessivo di caffè non c’è però l’Arabia, né la Turchia o la Francia di de Clieu, ma gli Stati Uniti (16% del totale). Seguiti dal maggior Paese produttore, il Brasile (11%). Ma il record del consumo pro capite, a sorpresa, va al Nord Europa: Finlandia in testa, seguita da Danimarca e Svezia.
ALL’ITALIANA. Nel nostro Paese i consumi di caffé si attestano a meno della metà rispetto al Nord Europa, ma il caffè è quasi da sempre un simbolo nazionale. Dapprima l’ex vino d’Arabia divenne protagonista a teatro. Il commediografo veneziano Carlo Goldoni già nel 1750 dedicò al tema una commedia di successo, La bottega del caffè. Undici anni dopo l’abate gesuita e scrittore Pietro Chiari replicò con un dramma giocoso, Il caffè di campagna.
Nello stesso periodo iniziava la sua carriera la tazzulella ‘e cafè celebrata da tante canzoni napoletane. Fin dal ‘700 a Napoli si affermò una variante al caffè turco (o alla turca): invece di cuocere la polvere dei chicchi macinati, come si fa ancora oggi in Turchia e Nord Africa, stemperandola in acqua in un bricco di rame poggiato su braci o sabbia calda, si diffuse la cottura napoletana. Il nuovo metodo prevedeva il filtraggio dell’acqua bollente, fatta colare dall’alto attraverso la polvere di caffè: è il principio che fa funzionare la cuccumella.
Nel 1902, a Milano, nacque invece l’espresso, grazie all’invenzione dell’ingegner Luigi Bezzera: una macchina che sfruttava l’alta pressione per filtrare il macinato. Nella moka, infine, messa a punto dall’imprenditore Alfonso Bialetti nel 1933, l’acqua portata a ebollizione sale dal basso.
Per preservare l’aroma del caffè il grande attore e drammaturgo napoletano Eduardo De Filippo suggeriva un sistema casalingo a suo dire infallibile: il coppitello, un cono di carta da inserire nel beccuccio della caffettiera al momento del filtraggio. Se volete testarne l’efficacia tenete conto delle parole del filosofo Montesquieu: «Il caffè ha la facoltà di indurre gli imbecilli ad agire assennatamente». Individuate la vittima, offritegli una caffettiera con coppitello e attendete fiduciosi i risultati.